di Marcello Frigeri,

laureato nella facoltà di Lettere e Filosofia, in scienze della comunicazione è portavoce del sindaco di Parma e spin doctor.

Giornalista pubblicista dal 2009, lavora nell’ambito della consulenza politica e della strategia della comunicazione.

 

Ringrazio il l’associazione culturale agendafilosofica per la gentile concessione di uno spazio dedicato all’esegesi della lettura. Parlare di libri, io penso, è un po’ come mettersi comodi e conversare sul mondo, perché ogni libro ha una chiave di lettura sulle cose accadute, che accadono o che potrebbero accadere. Prendiamo ad esempio “Il signore degli anelli” di J. R. R.Tolkien: benché il buon John Ronald Reuel lo abbia spesso negato, tacciando di superficialità chi osasse farlo, la trilogia del simpatico Frodo Baggings e amici riflette l’atmosfera pesante e la tensione di chi ha vissuto sulla propria pelle la Grande Guerra e la Seconda Guerra Mondiale. Così il fosso di Helm, difeso da uomini ed elfi dalla poderosa avanzata di Saruman, diventa l’ultimo lembo di terra che separa la luce della libertà dall’oscura minaccia totalitaria, che in quegli anni incombeva in Europa. Leggendo un libro possiamo soffermarci sulla bellezza e sulla potenza narrativa che esercita in noi, e limitarci a questo – sacrosanto -, ma possiamo spingerci oltre cercando tra le sue pagine un’impronta del mondo. Significa, in altre parole, pensare al mondo come a una ciclopica casa i cui confini ci sono sconosciuti, e servirsi di ogni singolo libro come fosse l’accesso a una nuova stanza: per quanto grande sia la nostra sete di conoscenza non riusciremo a visitare ogni remoto angolo dell’immensa casa, ma quel che conta è il viaggio e non la meta.

 

Le età dell’incertezza

Così mi sono chiesto: quale porta aprire per prima? Rispondo: quella la cui penombra filtra già dalla fessura, dischiusa sulla stanza dove aleggia lo stato d’animo che meglio di altri potrebbe rappresentare lo “spirito del tempo” attuale – per dirla con le parole del filosofo Ralph Waldo Emerson -: la paura. Ma paura di che cosa, precisamente? Di nulla in particolare se non della vuota e claustrofobica incertezza. Paura per la mancanza di punti di riferimento duraturi cui aggrapparci nei momenti di vertigine: presi singolarmente o come società, talvolta fatichiamo a trovare appigli solidi in un mondo in perpetuo e impetuoso movimento. Qualcuno dirà: com’è possibile vivere nell’incertezza, noi, figli di un’epoca in cui scienza e tecnica svelano ogni giorno verità fino a ieri insondabili? In ogni campo delle scienze, in effetti, ogni giorno si accende una luce nuova che brilla nell’oscurità: è come se pezzo dopo pezzo questo mondo e questo Universo ci fossero improvvisamente svelati. Viviamo forse una grande contraddizione? Paura dell’incerto nell’epoca della certezza: pare una follia.

Forse è proprio quello che avrà pensato e sentito Howard Phillips Lovecraft all’alba del Novecento – alba, a scanso di equivoci, della “società della scienza”, così preconizzata da Bertrand Russell -, quando alcune grandi scoperte dell’uomo avevano fatto luce su un mondo certamente più lento del nostro, ma che nel suo incedere mutevole e imprevisto iniziava una grande accelerazione.

 

L’orrore nella letteratura


Ebbene, nel suo importante saggio “L’orrore sovrannaturale nella letteratura” H. P. Lovecraft esordisce con le seguenti parole: “Il sentimento più grande e antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto”. Siamo nel profondo New England, percorso da infinite leggende, dalla natura generosa e i cui tetti a mansarda s’incurvano sinistri verso le nuvole. Qui Lovecraft ambienta gran parte dei suoi racconti, in quell’Arkham immaginaria ed empia, dimora di oscure quanto innominabili presenze extramondane. Il Solitario di Providence, come viene definito il Nostro, conversando coi suoi amici e conoscenti è molto critico con le persone che reputano il genere horror un sottogenere: bisognerebbe destinare più dignità ai racconti dell’orrore, dice e scrive, perché sono gli unici che sanno affrontare con dignità il significato della paura. La paura è uno stato d’animo verso cui noi dobbiamo essere rispettosi, fa parte degli abissi più reconditi dell’uomo, ma pur scaturendo dall’irrazionale è un sentimento che si riferisce a qualcosa di concreto e tangibile. Quando Lovecraft sostiene che scrive i suoi racconti per puro diletto, non credetegli (vedi Tolkien): Lovecraft strappa dall’angolo più prezioso di cuore la sua condizione esistenziale e la oggettivizza: gli dà vita, colore, odore, anima, tatto. I suoi racconti wierd (letteralmente: strano) non sono l’opera dilettosa di un grande narratore del Novecento diventato famoso soltanto dopo la morte, ma un vero e proprio stato d’animo: la paura. Per questo i protagonisti sfuggono a ogni descrizione e quasi scompaiono eclissati dall’atmosfera cupa dei racconti: non è importante “chi” ma “cosa” si sente. Più l’uomo fa luce sul mondo e l’Universo (sono i tempi della scoperta della Relatività Generale, del cosmo a più galassie, della meccanica quantistica), più Lovecraft pone l’umanità ai margini dell’esistenza, come se ad ogni passo verso il disvelamento dei suoi misteri il mondo risultasse sempre più grande e impenetrabile e dimenticasse l’uomo ai suoi confini (“il mio piacere si cela dietro l’apparente mutevolezza delle cose”). In altre parole: se illuminiamo il mondo scopriamo con terrore che esso cela più oscurità di quanta ne immaginiamo (“l’oscurità brulicava sempre di suoni indescrivibili e tuttavia Gilman talvolta tremava per paura che quei suoni dovessero attenuarsi, per permettergli di avvertire altri suoni più terribili e nascosti” – i sogni nella casa della Strega -).

Così la certezza si fa incertezza e diventa paura (o vertigine) dell’insondabile.

 

Superare Lovecraft con Sartre

Lovecraft indirettamente ci avverte che per quanto ci affanniamo a dominare il mondo, esso sarà sempre un passo oltre e avrà ragione su di noi; per quanto ci affanniamo a sostenere che possiamo avere tutto sotto controllo, ci sarà sempre qualcosa che saprà sfuggirci e, quindi, metterci sotto. Posizionare l’uomo ai margini dell’Universo e non al centro è, secondo lui, la condizione umana di esistenza (e di partenza), priva di ogni senso trascendentale. Tuttavia il limite di Lovecraft è proprio questo: il suo nichilismo. Tratteggia la condizione umana ma non indica la via per rialzarsi, ci dice cosa siamo ma non dove andiamo.

Dalla sua metafisica, con un po’ di audacia e coraggio, possiamo far partire l’esistenzialismo di Sartre, il quale gli avrebbe potuto rispondere: se la vita non ha senso il nostro dovere è dare un senso alla vita.

 

La paura dell’ignoto nel tempo della luce, un ossimoro

La “paura dell’ignoto”, nel tempo del dominio della scienza, è praticamente un ossimoro, eppure Lovecraft è riuscito a unire questi due mondi apparentemente contrastanti.

Li ha resi evidenti ai nostri occhi ricamandoci attorno la sua narrativa, re-inventando

un nuovo genere letterario, facendo cerniera tra i racconti horror prima e dopo di lui.

Nel tempo dell’età della scienza che tutto rivela, ha elevato l’incertezza dell’insondabile al massimo grado di paura arrivando in quelle profondità dell’animo umano che sono come gli abissi più neri e impenetrabili degli oceani profondi, e da lì è tornato in superficie per raccontare il suo viaggio. Come in fin dei conti ha fatto il protagonista del racconto “L’oceano di notte”, il quale si lascia attrarre dal buio tra cielo notturno e oceano che, deformando l’orizzonte, rende tutto più indistinto e nero: “Ancora adesso ignoro perché l’oceano eserciti su di me un fascino così grande. In ogni caso esso è lì, e così sarò quando la vita scomparirà e rimarranno solo creature sconosciute che scivolano nelle sue profondità oscure. Quando vedo le terribili onde che sorgono con forza indeterminabile, mi prende un’estasi simile alla paura: allora devo inchinarmi dinanzi alla potenza dell’oceano, perché altrimenti lo odierei e odierei le sue acque meravigliose”.

 

 

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