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di Monica Daccò

  • Laureata in Lettere Moderne Università degli Studi di Milano
  • Laurea in Filosofia e Comunicazione
  • Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”
  • II anno Master Triennale in Counseling Filosofico ISFiPP Torino

Ethos: la dimora dell’esilio

“Vuoto è l’argomento del filosofo che non dà sollievo all’umana sofferenza.”

– Epicuro, Massime

 

Un lungo e mesto corteo di mezzi militari sfila nelle strade deserte di Bergamo: trasportano bare, decine di feretri che nel cimitero cittadino e nel forno crematorio non trovano più posto; in lontananza il silenzio è rotto solo dalle sirene delle ambulanze che continuano senza sosta la loro corsa verso gli Ospedali della città. Guardo lo schermo della TV che trasmette incessantemente il servizio giornalistico e nella mia memoria riaffiorano ricordi di studio e le letture dei Classici della nostra Letteratura:

“All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro? [..] Anche la Speme, ultima Dea, fugge i Sepolcri: e involve tutte cose l’oblio nella sua notte; [..] Pur nuova legge impone oggi i sepolcri fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti contende.”

(Ugo Foscolo, Dei Sepolcri)

 

Le immagini di Bergamo e della sua tragedia, purtroppo, diventeranno, nelle settimane successive, quelle di altre città e altri luoghi dove si vive lo stesso dramma e scavano impietose nella mente di ognuno di noi sovrastando tutto ciò che fino ad oggi ha rappresentato il bello e il buono della nostra esistenza, il senso e la ricerca di una vita felice. L’angoscia ci invade:

“Dal profondo a te grido, o Signore; Signore, ascolta la mia voce. Siano i tuoi orecchi attenti alla voce della mia supplica.” (Salmo 130, De Profundis)

La nostra dimora, ethos, è occupata nel suo tessuto profondo dalla pandemia.

La mia riflessione comincia qui, dalla cesura che segna la distanza estrema e rende difficile scorgere la prossimità nelle relazioni umane. Rivedo queste immagini disperate, penso alla solitudine e alla sofferenza di coloro che sono morti, al dolore delle famiglie, all’assenza forzata delle comunità alle quali appartenevano, nella celebrazione e condivisione di un lutto che riguarda tutti, di una preghiera corale che cerca di alleviare la perdita e lo smarrimento. Tuttavia dobbiamo andare avanti, nell’isolamento che costringe i nostri corpi in spazi limitati, il pensiero può seguire, invece, percorsi illimitati che possano essere di conforto e aiuto in un momento in cui difficoltà e bisogno riguardano tutti e chiedono a tutti la capacità di saper diventare, attraverso parole e azioni, dono reciproco; dobbiamo liberare e ricostruire la nostra dimora, il nostro ethos ha bisogno di nuove fondamenta e di nuove cornici di senso.

Ho vissuto i primi momenti dell’emergenza in una dimensione di silenzioso disorientamento di fronte ad un evento che aveva fermato molta parte della mia attività e dei miei progetti: avevo bisogno di comprendere ciò che realmente stava avvenendo intorno a me, ma anche, avevo bisogno di riflettere sui miei limiti e sulle mie possibilità. La filosofia rappresenta per me lo strumento essenziale attraverso il quale svolgo la mia professione e la mia ricerca: la pratica filosofica è la mia bussola nell’orientamento della comunicazione e nello studio del linguaggio e della sua sintassi. La filosofia è per me risorsa e consolazione nell’affrontare le crisi: allora mi sono chiesta come avrei potuto portare nella drammatica e difficile contingenza un fare filosofico che potesse essere autentico aiuto anche a distanza, anche senza uno sguardo reciproco, ma semplicemente attraverso la voce o la scrittura affidata alla rete. Tralasciando tutto ciò che è stato il mio ambito lavorativo principale fino a poche settimane fa, ho ricominciato altrove col pensiero e con la parola, per ritrovare me stessa e il senso delle mie relazioni, il significato e lo scopo del mio fare:

 

“E se tu scruterai a lungo nell’abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”

(Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male)

 

Il nostro abisso è un virus che, non solo ci guarda, ma ci entra dentro e ci toglie letteralmente il respiro, scrutarlo ci ha costretti a rimettere in discussione obiettivi e valori della nostra esistenza; l’isolamento e la mancanza di contatto fisico esasperano il senso di solitudine, ma ci spingono a

trovare nuovi modi di dialogare e nuovi spazi di condivisione. Nel mio spazio condiviso la parola è lo strumento dell’aiuto nella relazione, è un parlare che ha la forza dell’atto, un impegno per essere cura e terapia. Oggi sentiamo tutti la mancanza dell’altro confinato lontano da noi, abbiamo bisogno di incontrarci, ma dobbiamo rispettare regole e restrizioni, il nostro esserci passa attraverso la parola: lo vediamo ogni giorno nei luoghi dove la fatica, il dolore, la sofferenza e il sacrificio sono più acuti, ma più forte è la speranza e la volontà di lottare, di guarire e di aiutare; lì la parola diventa bene-dire che accompagna la vita nel suo percorso, e spesso sopporta e porta il peso tragico del distacco.

La supplica di fronte ai nostri lutti riflette anche il De Profundis del nostro qui e ora che perde le sue fondamenta, allora dobbiamo ritornare alle cose stesse per rifondare il nostro ethos, per essere, attraverso la parola e la sua performatività, narrazione di quella favola in cui “la morale insegna che…”, per donare al nostro presente il senso possibile e la possibilità progettuale che è senso di appartenenza alla comunità e che abita il pensiero di ognuno di noi.