di  Beatrice Anderlini

Laurea di primo livello in Filosofia- Università degli studi di Perugia.
Laurea magistrale in Filosofia ed etica delle relazioni -Università degli studi di Perugia

Frequenta il II anno di “Counseling Filosofico” presso Isfipp – Torino

 

Inaspettatamente un nemico invisibile, il CoViD-19, ha stravolto la nostra vita, il nostro quotidiano. Non possiamo più incrociare lo sguardo dell’Altro per le vie delle nostre città, quello sguardo amico che dopo una lunga ed impegnativa giornata lavorativa, ci rassicurava e ci faceva credere in noi stessi, quello sguardo che ci faceva riflettere. Per Umberto Eco la condizione fondamentale dell’essere umano è il rapporto con un altro essere umano, ed è proprio il suo sguardo, quello dell’Atro che definisce e forma noi stessi. Non potremmo comprendere chi siamo senza lo sguardo e la risposta dell’Altro. Pertanto il risultato del vivere in una comunità, dove non ci si può più guardare negli occhi, non è lo specchio di quello che siamo. In un momento di emergenza mondiale dove una pandemia ci fa vivere grandi spazi di solitudine, si potrebbe pensare che sia sufficiente comporre un numero telefonico e sentire la voce dell’altra persona che ci manca. Ma non è così. Non possiamo illuderci. Non ci basta più interpretare lo stato d’animo di un nostro amico attraverso un’emoticon che utilizzavamo fino a pochi giorni fa solo perché eravamo travolti da una vita di corsa, come avrebbe detto Zygmunt Bauman.  Noi non avevamo qualche minuto in più per cercare la parola giusta, per comunicare il nostro autentico sentire. Ora desideriamo, giorno dopo giorno, che sia lo sguardo della persona a parlarci di nuovo, come accadeva nei giorni di primavera degli anni passati. Così le piazze delle città oggi sono diventate le piattaforme per condividere videochiamate, il volto dell’Altro è con noi, anche se divisi da uno schermo. Credo che una percentuale molto alta di persone, prima dell’arrivo di questo virus, non aveva istallato nei propri dispositivi digitali un numero esponenziale di applicazioni, per consentire la realizzazione di video call con il gruppo di amici residenti in un quartiere distante pochissimi chilometri dalla propria casa. La nuova forma di comunicazione che caratterizza oggi le nostre giornate, indica l’andare oltre la barriera, oltre il limite, per raccontarsi allo sguardo dell’Altro in un formato insolito. Questo strumento digitale si sta utilizzando per un fine diverso da quello che può essere raggiunto in una video conferenza lavorativa, in un seminario universitario. Sta diventando un bisogno per superare insieme, guardandoCi, l’imprevisto e dunque fronteggiare il nuovo evento. Ma per il paziente CoViD-19 cosciente, orientato nel tempo e nello spazio, con un casco C-pap sulla testa che gli consente di respirare meglio, che non ha molte speranze e il monitor al quale è collegato ne dà conferma, cosa può rappresentare quello schermo attraverso il quale può rivedere uno sguardo familiare? “Un point de vue de fin de vie”, di ricoeuriana memoria, l’essere vivi fino alla morte. Il gesto dell’infermiera di prendere il proprio telefono, perché quello del paziente non è di ultima generazione, metterlo in un sacchetto, disinfettarlo e rispondere alla videochiamata dei figli, dei nipoti è il far percepire lo sguardo vicino, anche se distante, è il dissolversi dell’assenza, della perdita, dell’incompiutezza. La videochiamata continua per poco tempo, ma continua per cercare di esserci insieme, per vivere la persona nel suo sguardo.

 

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