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di Sara Marello

Laureata in Filosofia e storia delle idee all’università degli Studi di Torino
Studente II anno al Master triennale in Counseling Filosofico ISFiPP (Torino)

 

Tutto iniziò come la solita notizia proveniente da un paese lontano, un virus molto contagioso dicevano, voci confuse, informazioni sparse.

Nel frattempo, la vita procedeva come sempre, tanto lavoro, poco tempo libero, la visita settimanale ai genitori, un cinema, una cena con gli amici, il solito insomma.  Poi un giorno il mondo là fuori bussò alla porta, non fu molto gentile per la verità, entrò e basta e tutto cambiò.

Non capii subito esattamente la portata di quello che stava per succedere e che sarebbe successo, mi sorprese la rapidità degli eventi. Scuole chiuse, stazioni vuote, limitazione negli spostamenti, mascherine sui volti, sguardi sfuggenti e distanze di sicurezza.

Parole che raramente avevo pronunciato fino a quel momento ad un certo punto divennero quotidiane “quarantena” “misure restrittive” “bollettino dei contagiati” “autodichiarazione”.

Mi aggrappai finché potei a tutto ciò che era la mia quotidianità che vedevo corrodersi pezzo dopo pezzo, decreto dopo decreto, contagio dopo contagio, non era paura, o almeno non credo, ma mi sentivo chiusa in una morsa che ogni giorno diventava sempre più stretta.

Provai rabbia, frustrazione, tristezza, preoccupazione per il futuro; nello stesso tempo mi sentivo sbagliata perché non riuscivo a provare la gratitudine per quello che avevo e quindi anche in colpa nei confronti di coloro che lottavano, guardando la morte in faccia ogni giorno.

Mi chiusi al mondo più di quanto le misure anti- virus non mi costringessero a fare, non avevo voglia di sentire e vedere nessuno, sola con me stessa e i miei libri, al riparo dalle voci di coloro  che avevano un’opinione su tutto e la eleggevano a verità; di quelli per cui ogni conversazione era occasione di scaricare sull’altro la propria negatività, senza cura e rispetto; di chi ,vittima della propria frustrazione e invidia mal riposta, si erge a giudice del comportamento altrui, senza mai un dubbio o un momento di incertezza.

Ero in una specie di stand-by esistenziale, un po’ sfiduciata e sperduta, alla ricerca della domanda che avrebbe dato una scossa alla situazione stagnante.

Una situazione che non si sapeva quanto potesse ancora durare, “poco” si sperava, ma poteva essere ancora questione di mesi, una situazione di cui si potevano soltanto intuire le conseguenze reali che avrebbe avuto sulle vite di ognuno, quando tutto sarebbe finito, come quando dopo un uragano si vanno a vedere i danni per cercare di immaginare una ricostruzione.

Non so esattamente quale “domanda” arrivò, ma un giorno invece di cercare di non sentire quell’inquietudine e mancanza di senso che permeava come una patina le mie giornate, decisi di starci dentro fino in fondo, ascoltarla e lasciarla uscire. Smisi di riempirmi di parole di carta altrui che, in quel momento, invece di indurmi a riflettere mi permettevano di non pensare e provai a scrivere e mi concessi di dire ciò che sentivo senza pregiudizi, una sorta di epochè liberatoria nei confronti di me stessa che mi permise di fare chiarezza e cambiare prospettiva.

Guardai fuori dalla finestra e mi accorsi che la primavera stava arrivando lo stesso, anche quell’anno, nonostante tutto; decisi di fare come lei, di stare nel “nonostante tutto”, una nuova dimensione precaria e indeterminata in cui dovevo ancora prendere le misure, ma che, a suo modo cambiando spesso schema di gioco mi costringeva a non fossilizzarmi su abitudini e sicurezze illusorie.

Avevo l’opportunità di rimettere tutto in discussione tutto poteva essere diverso e tutto era da scrivere, e il tempo riprese ad essere una risorsa, un bene prezioso perché limitato. Non sono le cose da fare che ci permettono di trascorrere la giornata, ma è il tempo che abbiamo a disposizione che ci permette di fare cose, di immaginare un futuro, di progettare e di dedicarci alle persone che ci circondano, per l’ennesima volta ebbi la conferma che sono gli Altri a dare un senso alla mia esistenza.

All’improvviso mi fu chiaro. Ecco cosa c’era sul tavolo delle trattative, da una parte una generosissima porzione della libertà di ciascuno, dall’altra la salvaguardia dell’umanità intera, nessuna garanzia di vincita, ma la posta in gioco era altissima e quindi ne valeva la pena rischiare. Non era una guerra, non era qualcosa di calato dall’alto e imposto, non era l’espropriazione di qualcosa che era mio; bensì la scelta di fare la mia parte, di fare quel che in quel momento era in mio potere per affrontare una situazione enorme, ma di cui ero una dei tantissimi protagonisti, nessuna comparsa o personaggio secondario, soltanto attori principali impegnati e uniti nella stessa rappresentazione.

Ecco cosa mi è rimasto di quel periodo, la consapevolezza che ognuno ha molte più risorse di quelle che pensa e che sono proprio quei momenti, in cui succedono cose fuori dalla nostra portata e controllo, che ci danno l’opportunità di scoprire la parte migliore di noi e di ricordarci che seppur fisicamente distanti, gli Altri sono parte integrante e fondamentale della nostra esistenza. Mi sono portata dietro la sensazione di appartenenza all’Umanità, alla fine siamo tutti qui a sperare nel meglio, ognuno a proprio modo certo, ma con lo sguardo rivolto verso lo stesso futuro.