di Marcello Frigeri

Marcello Frigeri, laureato nella facoltà di Lettere e Filosofia, in scienze della comunicazione è portavoce del sindaco di Parma e spin doctor.

Giornalista pubblicista dal 2009, lavora nell’ambito della consulenza politica e della strategia della comunicazione.

Nel ‘600 Cartesio aveva fatto un passo oltre i confini dell’ordinario, per utilizzare una similitudine calcistica aveva trovato uno spazio di manovra là dove era impensabile trovarlo.

Prima di Cartesio l’uomo era parte della Natura, la quale, per così dire, era centrale rispetto a noi: l’uomo teneva ben saldo lo sguardo al cielo e lo contemplava. Il soggetto era il mondo. Entrambi (mondo e uomo) erano creazioni dell’Assoluto, quindi di una entità fuori da entrambi: la Verità stava “là fuori” e noi ne eravamo abbagliati. A questa architettura del mondo non c’erano alternative: era così e basta. Poi arriva Cartesio con il suo pensiero (dubito quindi penso, penso dunque sono), e Natura e uomo per la prima volta si “scindono”: l’uomo si posiziona esattamente al suo fianco come elemento distinto. Non propriamente due entità separate, diciamo che l’uomo ha piano piano distolto lo sguardo dal cielo – dalle cose della Natura – e ha iniziato a porlo su se stesso: si è messo al centro del suo pensare. Il soggetto è diventato l’uomo.

L’uomo al centro del mondo come pensiero creatore, come libertà, come indipendenza, come elemento di progresso del mondo e della stessa umanità (che diverrà collettività); l’uomo che domina ma non viene dominato: sono le prime crepe sulle pareti granitiche dei dogmi dell’epoca (“l’uomo non viene più ristretto entro alcun limite, ma è sotto ogni riguardo sciolto da limiti”, Heidegger). Ora, qualcuno dirà che l’abbiamo presa molto tangente, ma la premessa è d’obbligo: attraverso il pensare, l’uomo si è posto al centro dell’Universo.

Poi che cosa è accaduto? Tanti fatti che qui non possono essere riassunti. Due possiamo citarli: abbiamo scoperto che l’Universo è immenso, davvero immenso, incommensurabile e strano. La sua vastità e l’estrema stranezza delle sue leggi ci disorientano e ci rendono nuovamente piccoli così, quasi insignificanti. Il secondo fatto avvenuto è il dispiegarsi della potenza – questa sì – dell’uomo nella “sua” Natura, cioè nel mondo. Una potenza tale da poterci sfuggire di mano. Entrambe le situazioni hanno elementi sconcertanti: nel primo caso l’Universo ci schiaccia con la sua vasta e grande stranezza (“quando vedo le terribili onde che sorgono con forza indeterminabile, mi prende un’estasi simile alla paura: allora devo inchinarmi dinanzi alla potenza dell’oceano”, Lovecraft); nel secondo la “nostra” potenza diventa una “cosa” dotata di mani e piedi che rischia di dominarci e toglierci prospetticamente “ogni alternativa”.

Prendiamo quest’ultimo aspetto. C’è un uomo che meglio di altri ha saputo decodificare l’esistente “privo di alternative” svelandone, a suo dire, le menzogne e mostrandone il volto opprimente: Mark Fisher. Come i protagonisti delle storie di Lovecraft, raggiunti dalla follia una volta scoperto il volto abissale che soggiace alla realtà, Mark Fisher si è tolto la vita nel 2017 lasciandosi dietro un vuoto culturale e concettuale. Viene da pensare che il suo suicidio sia stato il prezzo del biglietto per aver svelato, quindi osservato da un punto privilegiato, l’irrealtà  priva di alternative”, perturbante e profonda. Fisher si laurea presso l’Università di Warwick, fatta di “edifici brutalisti”, in un Regno Unito “appena uscito dal decennio di Margaret Tatcher” e con “la rivoluzione digitale alle porte”; “erano gli anni della globalizzazione che sanciva la fine della storia, in cui alla fine di ogni alternativa al capitalismo occidentale si accompagnava un balzo in avanti della tecnologia” (Gianluca Didino nella postfazione di “The weird and the eerie”).

In questo contesto urbano e opprimente, assieme ad altri intellettuali di Warwick, Fisher si unisce alla CCRU (Cybernetic Culture Research Unit), una realtà semi riconosciuta del dipartimento di filosofia in cui circolano la cultura cyberpunk, i testi distopici di Philip Dick, quelli di Lovecraft, di Nietzsche e di tutto un sotto-genere ribelle e anticonformista che contrappone alla visione del mondo odierna un grido di rabbia.

La tesi di Fisher è che l’uomo vive una realtà artificiale “senza alcuna alternativa” (la potenza dispiegata), come disse Margaret Tatcher parlando del regime neoliberista. Non avere alternative significa vivere un tempo piatto e soffocante dove il futuro è inesistente e a-prospettico: se non c’è alternativa non c’è futuro, esiste solo un eterno e soffocante presente (la “fine della storia” preconizzata da Fukuyama).

Già Lovecraft prima di lui scriveva in un racconto rimasto incompiuto:

“Quando la vecchiaia discese sul mondo e gli uomini persero la capacità di meravigliarsi; quando città grigie sollevarono verso cieli di fumo alte torri cupe e sgraziate, alla cui ombra era impossibile sognare il sole o i campi fioriti di primavera […], ci fu un uomo che valicò i confini della vita alla ricerca di qualcosa nei vasti spazi ove erano fuggiti i sogni del mondo”.

I “sogni del mondo” fuggiti dagli opprimenti “cieli di fumo” e dalle “torri cupe e sgraziate”, alla cui ombra “era impossibile sognare il sole o i campi fioriti”, riportano alla mente anche la “La storia infinita” di Michael Ende, uno dei più bei romanzi di critica verso il dominio dell’esistente privo di alternative: l’uomo, scriveva Ende, può avere la forza di uscire dal Nulla, dal piattume di una vita vuota e soffocante, rimettendo al centro del suo agire creatività e fantasia, cioè quelle forme di espressione umana che lo elevano dall’ordinario.

A proprio modo Fisher, Lovecraft ed Ende denunciano l’oppressione di un mondo “senza alcuna alternativa” e immaginano il ritorno “ai sogni del mondo” come a una presa d’atto choc nei confronti del volto artificioso, quindi irreale e finto della realtà.

 

 

Fisher afferma che “il sentimento più tipico del nostro tempo è un mix di noia e compulsione. Anche se sappiamo che è roba noiosa, ci sentiamo lo stesso costretti a partecipare a un altro quiz su Facebook, a leggere un’altra lista di Buzzfeed, a cliccare su un sito di gossip che parla di gente famosa di cui non ci importa nulla. Navighiamo senza pace tra informazioni noiose, ma il nostro sistema nervoso è talmente sovrastimolato da non concedere mai il lusso di essere annoiati. Nessuno è annoiato, tutto è noioso”.

 

In questa irrealtà noiosamente appiattita sull’eterno presente – come se vivessimo ogni giorno lo stesso giorno – è calata l’ombra soffocante dell’eerie (l’inquietante).

L’inquietante è qualcosa che nella realtà si mostra assente, ma in forza della sua stessa assenza lo avvertiamo drammaticamente presente. In altre parole abbiamo sentore di un’artificiosa realtà scesa sul mondo solo attraverso un malessere percepito nel quotidiano, come il sintomo di una malattia invisibile ma debilitante.

Afferma infatti Fisher, “il malcontento diffuso si nasconde in piena vista in un incerto malessere rivelato dai frigoriferi, dagli apparecchi televisivi e altri beni di consumo durevoli. La vividezza di questo mondo deprimente si fa più intensa quando lo status di tale mondo viene declassato a simulazione costruita a tavolino. Il mondo è una simulazione, anche se dà ancora la sensazione di essere reale”.

Il mondo immaginato dal critico di Warwkick è alienato, soffocato da una sintetica realtà il cui unico scopo è produrre se stessa in eterno. Un a-scopo “senza alcuna alternativa”, appunto. Il gioco si rompe quando, come in Matrix, si sceglie la pillola che permette di vedere la finzione dietro il reale, ma il prezzo da pagare sarà forte quanto è forte lo choc nel riconoscere la finzione calata sul mondo.

Sulla piattaforma Starzplay c’è una bella serie tv di nome no-end house, la casa senza uscita, tratta da un racconto nato e sviluppatosi sul web (i cosiddetti racconti creepypasta). Narra del viaggio mentale – o reale, chissà – di una ragazza entrata per gioco in una sinistra casa che appare e scompare una volta all’anno. Facendo ingresso nella casa senza uscita si accede in una realtà parallela apparentemente identica alla nostra: stesse case, stesse vie, stesse persone. Eppure questo mondo è pervaso in ogni suo atomo da una patina di pesante stranezza: le persone non si comportano in modo che noi definiremmo normale. Manca qualcosa in questo mondo, come se ci fossero elementi di realtà fuori posto. Manca un qualcosa del “reale” che lo renderebbe effettivamente “vero”: l’assenza di quel qualcosa, in forza della sua stessa assenza, si mostra come presenza di una inquietudine latente e soffocante (eerie). La ragazza, poi, scopre che per sopravvivere i non-uomini di quel mondo si nutrono dei ricordi delle persone reali. Perdere i ricordi del reale porta inevitabilmente a confondere il non-mondo con quello vero.

Ecco, se Fisher fosse ancora vivo probabilmente definirebbe l’eterno giorno “senza alcuna alternativa” una “casa senza uscita”, dove l’irreale si confonde col reale e il mondo si aliena da se stesso. E ancora una volta, forse, attraverso le sue parole e i suoi scritti ci metterebbe in guardia sulle menzogne dell’esistente. Consigliandoci di individuare un puntino di luce scintillante nell’abisso, infine, direbbe: seguite quel flebile fascio luminoso, qualsiasi cosa sia è l’unica realtà in un oceano di menzogne patinate.