• di Marcello Frigeri

Fuori dalla finestra c’è trambusto, si intrecciano tra loro con un ritorno sonoro sferragliante e meccanico i rumori cacofonici della città. Dai motori vibranti di bulloni e ingranaggi al vociare disarmonico dei passanti, dai suoni robotici che battono sui palazzi al metallico squillo dei telefoni. Non ce ne accorgiamo perché assorti o distratti, ma i suoni ovattati da catena di montaggio dei centri urbanizzati mormorano fastidiosi attorno a noi tanto da lasciarci nelle orecchie un fischio monocorde e sottile che ci accompagna fino a sera, quando rincasiamo e ci abbandoniamo al silenzio della notte.

Il suono della natura, un tempo dominante, è rimpiazzato dallo stonato e acefalo tamburo artificiale della meccanica; agli elementi naturali si è sostituita la cacofonia del metallo, dell’olio e del motore, componenti di un mondo artificiale in cui siamo immersi. Di più: per alcuni ne siamo una estensione cibernetica.

Parallela all’epoca della grande produzione tecnologica e del consumo, infatti, si sviluppa il sottogenere letterario del cyberpunk di cui William Gibson, Aldus Huxley, Philip Dick o Pat Cadigan sono autentici sacerdoti: in questo marasma sferragliante e incerto fatto di macchine, bit e produzione, nel corpo umano si innestano tecnologie cibernetiche e meccaniche che ne diventano l’estensione. È il tempo non troppo sussurrato dell’unità tra uomo e macchina, di cui la macchina è la parte dominante.

Persino negli scritti allucinati e psicotici di Philip Dick Dio diventa un’entità intelligente che (probabilmente, non si sa) si auto-genera nello spazio e da lì invia dati e informazioni sulla natura dell’Universo. Il suo nome è Valis (Vast Active Living Intelligence System), un sistema ibrido tra elementi computerizzati e poteri divini, telepatia e materializzazione.

La tecnologia, insomma, domina il mondo e quindi l’uomo, anche se taluni ritengono il contrario.

Dal cyberpunk al weird, la condizione alienata dell’uomo

La letteratura cyberpunk racconta questo dominio artificiale e la fuga da esso con gli strumenti stessi che l’elemento cyber ci offre. Ovvero, si fa forza degli spettri artificiali del mondo per contrastarne il dominio, ma non condanna l’artificiosità dello stesso: il mondo è ibrido e così rimane, al più lo si combatte per conferirgli anima, sia pur mantenendo i suoi elementi ipertecnologici.

Il weird, nato ben prima, al contrario osserva questo mondo nullificato in cui siamo gettati e si sofferma sulla condizione umana.

È un genere che sfugge a definizioni precise. Fuggire (andare via, sottrarsi) è un po’ il suo marchio di fabbrica: il weird “si sottrae”, cioè si toglie dalla realtà – ne percepisce l’artificioso inganno – e si abbandona alla condizione tormentata dell’uomo, che in questa realtà è alienato e sconnesso.

Del resto, la condizione di miseria e alienazione è ben definita dal racconto rimasto incompiuto “Azathoth”, di Lovecraft: Quando sul mondo caddero le ere, e la meraviglia svanì dalle menti umane; quando le città grigie innalzarono fino a cieli fumosi torri sinistre, orrende, alla cui ombra nessuno potrebbe sognare il sole o i prati in fiore della primavera; quando l’istruzione strappò alla terra il suo manto di bellezza, e i poeti non cantarono più, se non di fantasmi contorti scrutati nel proprio intimo con occhi annebbiati; quando queste cose accaddero, e le infantili speranze se ne andarono per sempre, ci fu un uomo che viaggiò fuori della vita in una ricerca negli spazi dove si erano involati i sogni del mondo.

La condizione dell’uomo, lo si legge bene, è di soffocamento sotto un tetro e opprimente skyline urbano, mentre il mondo fugge lontano appesantito “dalle ere”, o ancora meglio: si è tolto dal raggio visivo dell’essere umano, ormai rimasto solo nell’abisso dell’ente (degli oggetti inanimati), che è un niente (“la meraviglia svanì dalle menti umane”; “alla cui ombra nessuno potrebbe sognare il sole”).

Nel suo raccontare, il weird affronta la condizione di minorità esistenziale in cui l’uomo si è gettato. È un sottogenere dell’horror ma anche del fantasy, si mischia con entrambi attingendo a volte dall’uno e a volte dall’altro.

Ci conduce in mondi le cui leggi di natura sono così tanto destrutturate da disturbarci, come in quella puntata dei Simpson in cui piovevano ciambelle e le pietanze si mangiavano senza l’uso delle mani, ma con lingue camaleontiche.

Altre volte, invece, la sospensione delle leggi di natura non è così palese: qualche elemento “fuori posto” nel quotidiano svela l’inganno della realtà e crea conflitto, come nei libri di Philip Dick o nel film Matrix, quando Neo vede un gatto nero passare due volte nello stesso momento.

La matrice che in una certa misura accomuna i racconti weird è la lontananza dell’uomo dalla realtà del mondo, divenuto un artifizio alienato e alienante.

Ma sul banco degli imputati non c’è il mondo, toltosi dal raggio visivo dell’essere, bensì l’uomo. Egli lo ha soppiantato con un alter ego artificiale. Dalle regioni lontane in cui si è gettato, seduto su una roccia vagante nel cosmo, l’uomo percepisce il mondo scomparire all’orizzonte e prova paura.

Dal weird all’esistenzialismo, dal niente all’essere

È la paura del nulla, che dalla vista ci sottrae il mondo. In questo regno intollerabile di cose inanimate che borbottano inquiete manca il domandare dell’uomo. Se infatti domando a me stesso “che cosa sono?” o “perché sono?” o ancora “in che modo sono?” ecco che il mondo riappare alla nostra vista, perché questo domandare ci riporta sul sentiero del senso delle cose, dove si mette a nudo la precaria condizione umana.

Preso in questi termini, il domandare dell’uomo è un camminare lungo il sentiero dell’essere-nel-mondo, la forma più alta di libertà. Infatti: o con il mio domandare sono io a decidere per me, e allora esisto, o viene deciso di me, e allora il mondo ancora una volta si sottrare ai miei occhi e io divento strumento nelle mani di altri. La decisione da prendere regge la seguente domanda: se esistere vuol dire qualcosa, in che modo voglio esistere?

Nel nulla del mondo che si sottrae ai nostri occhi non troviamo traccia di questa domanda, perché nel nulla non decidiamo cosa e in che modo vogliamo essere. Nella società del nichilismo ben affrescata dal weird, affranta da una inquietudine senza nome e dominata dalla “funzione”, dall’ingranaggio e dal bullone l’esistenza è scomparsa; non vi è nemmeno la sopravvivenza, ma un niente che domina l’esistenza: il bullone abbandonato dall’anima (l’ente e non l’essere, che dell’ente è la matrice). Il ritorno all’esistenza è la riconquista della domanda attorno al senso dell’essere: che cosa vuol dire essere e in che modo vogliamo essere. Attorno al senso dell’essere troviamo il senso di una scelta, perché esserci significa scegliersi soprattutto in momenti della storia così radicali e manichei, tinteggiati dal weird con spruzzate di assurdo nichilismo.