Ho letto un libro consigliato da un podcast ben organizzato ed equilibrato che si chiama BOOKweek curato da Gianluca Gatta – direttore editoriale delle edizioni FOG – che ogni settimana ci racconta un romanzo, un saggio, un manuale o un fumetto. Il libro è stato scritto da Beau Lotto, un neuroscienziato e autore britannico noto per il suo lavoro sulla percezione e sull’interpretazione del colore da parte del cervello umano. Lotto ha, tra le altre cose, fondato il Lab of Misfits Studio, uno laboratorio di ricerca creativo che esplora i processi percettivi e cognitivi attraverso l’arte e l’esperienza interattiva; ha tenuto conferenze e scritto diversi libri, tra cui “Deviate: The Science of Seeing Differently” e “Why We See What We Do: An Empirical Theory of Vision”. Lotto è noto anche per il suo approccio innovativo e divertente alla scienza e per la sua capacità di comunicare concetti complessi in modo semplice e accessibile al pubblico. Il brano, contenuto nel 7 capitolo del libro Percezioni (come il cervello costruisce il mondo, Ed Bollati Boringhieri 2017), affronta il potere della narrazione nel modificare l’interpretazione del passato e nell’ampliare le possibilità del futuro.

Lotto esplora come la nostra capacità di raccontare storie influenzi la nostra percezione della realtà e plasmi la nostra prospettiva sul passato. Attraverso esempi presi dalla letteratura e da esperienze di vita, l’autore dimostra come una stessa serie di eventi possa essere interpretata in modi diversi a seconda del contesto narrativo in cui viene presentata.
Lotto sottolinea l’importanza di considerare il ruolo delle narrazioni nel processo di costruzione del significato e della memoria collettiva. Le storie che raccontiamo su noi stessi, sugli altri e sulle esperienze passate possono avere un impatto significativo sulla nostra identità e sulle nostre aspettative per il futuro: comprendendo il potere delle narrazioni, possiamo essere più consapevoli delle storie che ci raccontiamo e delle loro conseguenze sulla nostra visione del mondo. Inoltre, il brano esplora come le narrazioni creative e alternative possano aprire e far prendere forma a nuove possibilità per il futuro. Quando ci liberiamo dalle narrazioni limitanti o preconfezionate, siamo in grado di immaginare e costruire un futuro più inclusivo e innovativo. Le storie ci offrono la capacità di esplorare nuovi scenari, di sperimentare diverse prospettive e di costruire ponti tra le diverse comunità. Beau Lotto ci invita a considerare il ruolo attivo che abbiamo nella costruzione delle nostre storie personali e collettive, e ci sfida ad esplorare narrazioni più ampie e inclusive che possano portare ad un mondo migliore.
Una frase, in particolare, mi ha colpito, forse perché a scriverla è un neuroscienziato:” quel che fanno i filosofi è prendere degli assunti esistenti (o preconcetti, o quadri di riferimento) e metterli in discussione. Questo li porta a elaborarli o a ritoccarli o a tentare di distruggerli, per poi rimpiazzarli con una serie di nuovi assunti che un altro filosofo affronterà nello stesso modo. Questa metodologia apparentemente esoterica del continuo interrogarsi è tutto meno che esoterica. Non solo è una competenza apprendibile, ma è di straordinaria importanza pratica in un mondo ossessionato dal trovare risposte definitive, che guariscano tutti i mali. È per questo che dobbiamo portare il metodo della filosofia nella nostra vita quotidiana”. Credo che questa dichiarazione di Lotto risuoni intensamente in me, forse perché è la sintesi perfetta del manifesto dei valori di Agenda Filosofica.

Brano estratto dal Capitolo 7 Costruire un nuovo passato per il futuro.
Dal libro Percezioni.
Uno degli esperimenti più noti e controversi nella storia delle neuroscienze, condotto da Benjamin Libet nei primi anni Ottanta, partiva da un compito molto semplice: i partecipanti dovevano muovere il polso sinistro o il destro. Neurofisiologo e psicologo presso il Dipartimento di fisiologia della University of California di San Francisco, Libet è morto nel 2007 all’età di novantun anni, ma il suo articolo pubblicato nel 1983 come resoconto dello studio rimane ancora oggi memorabile. Libet scoprì che intercorre un certo lasso di tempo fra le decisioni comportamentali effettuate dai nostri circuiti neurali e la nostra consapevolezza di quelle decisioni. I suoi risultati sollevarono un accesissimo dibattito, che continua a infiammare gli animi, su cervello, coscienza umana e libero arbitrio. Perché? Perché le sue scoperte mettono in discussione l’idea stessa che gli esseri umani siano agenti decisionali in grado di produrre pensieri e azioni. In altre parole, i suoi studi suggerivano che non siamo padroni coscienti del nostro destino, ci limitiamo a vederlo scorrere, falsamente convinti di averne il controllo. Ma non è così, noi siamo agenti decisionali. Però, per sapere come esercitare questa facoltà, dobbiamo prima capire perché sia possibile farlo. Ecco come si svolse l’esperimento di Libet: lui e il suo team fissarono degli elettrodi sul capo dei partecipanti per misurare l’attività elettrica nel loro cervello. Poi venne chiesto ai soggetti di muovere il polso destro o il sinistro, ma prima di farlo dovevano indicare l’istante esatto in cui avevano preso la decisione di quale dei due muovere. Ciò era reso possibile da un dispositivo simile a un cronografo, che misurava e registrava tre momenti con una precisione al millisecondo: l’istante in cui i segnali neuro elettrici dei soggetti indicavano che nel loro cervello la decisione era presa, cioè in cui si generava un picco di attività elettrica chiamato «potenziale di prontezza motoria» (dal tedesco Bereitschaftspotenzial, detto anche «potenziale di preparazione»); l’istante in cui i partecipanti erano consci di voler compiere il gesto; e l’istante in cui muovevano effettivamente il polso. I risultati? Nella media, il potenziale di prontezza motoria si manifestava nella corteccia cerebrale dei soggetti 400 millisecondi prima della loro decisione consapevole di compiere il movimento, che a sua volta precedeva di 200 millisecondi il movimento effettivo. Può sembrare un esito piuttosto lineare, che suggerisce una «sequenza» naturale, ma furono – e sono – le implicazioni filosofiche dell’esperimento a essere controverse.1 Nell’interpretazione di Libet (e di molti altri), la sua scoperta rivelava che le decisioni coscienti dei partecipanti in realtà non erano tali. Non si potevano considerare affatto decisioni, almeno non come comunemente le intendiamo, dato che avvenivano nel cervello prima che i soggetti ne fossero consapevoli. Lo stato attrattore relativo all’attività che aveva luogo entro la loro specifica rete neurale era presente prima che la loro mente elaborasse il processo decisionale conscio. La decisione si manifestava nella loro coscienza soltanto dopo questa attivazione, sembrando ingannevolmente ciò che causava il movimento. Implicitamente, questo significherebbe che le decisioni non necessariamente discendono da intenzioni coscienti proattive, bensì da meccanismi neurali che determinano un comportamento percettivo automatico. Per estensione, suggerisce che non esista il libero arbitrio. Se Libet avesse ragione, il suo esperimento starebbe a indicare che gli esseri umani sono spettatori passivi della più coinvolgente esperienza di realtà virtuale: la propria vita. Negli anni, le provocatorie scoperte di Libet hanno continuato a far discutere, generando addirittura un nuovo campo di ricerca, la neuroscienza del libero arbitrio. Il suo esperimento ha turbato e compiaciuto in ugual misura i filosofi, a seconda di dove si collocassero rispetto al dibattito di antica data fra determinismo e libera volontà, poiché sembra confermare che non abbiamo il controllo di ciò che facciamo nel qui e ora dato che tutto ciò che facciamo nel qui e ora è una risposta riflessiva, automatica, anche se non abbiamo l’impressione che sia così. Ci limitiamo semplicemente a reagire sul momento, per lo meno quando siamo inconsapevoli. Ma una mancanza di proazione non significa che non possiamo agire intenzionalmente. La chiave per sbloccare questo processo dell’azione intenzionale è la consapevolezza. Una volta che siamo consapevoli dei principi fondamentali della percezione, possiamo usare a nostro vantaggio il fatto che non vediamo la realtà. Per poter fare questo, dobbiamo ricordare che tutte le percezioni non rappresentano altro che le percezioni passate, nostre e della nostra società, riguardo a ciò che si è (o non si è) rivelato utile. Quindi, se è vero che non siamo in grado di controllare consciamente il «qui e ora presente», possiamo però influenzare il «qui e ora futuro». In che modo? Cambiando il passato del nostro futuro, cosa che solleva un profondo interrogativo rispetto a dove potrebbe risiedere il libero arbitrio – sempre ammesso che ce l’abbiamo. Che cosa intendo dire? Gli esperimenti di Libet dimostrano che abbiamo poca, per non dire nessuna, possibilità di scegliere liberamente in merito alle risposte che diamo agli eventi nel momento presente. Ma attraverso il processo di immaginazione (il delirio), noi abbiamo a tutti gli effetti la capacità di modificare i significati di eventi del passato, che risalgano a un secondo fa oppure, come nel caso di certi memi culturali, a secoli fa. Questo ri-attribuire significato, o cambiare il significato di eventi passati, necessariamente modifica la storia «passata» delle nostre esperienze – ovviamente non gli eventi di per se stessi, né i dati sensoriali prodotti da quegli eventi, bensì la storia statistica su cui si basa la percezione. Dal punto di vista della percezione, l’esercitare il libero arbitrio per conferire nuovo significato alla storia passata dei significati (cioè delle nostre narrative) modificherà la nostra storia futura da quel momento in avanti, vale a dire, il «passato del nostro futuro». E poiché le percezioni future – proprio come quelle che esperiamo nel presente – saranno anch’esse risposte riflessive alla loro storia empirica, il cambiamento del «passato del futuro» ha la potenzialità di modificarle (benché continueranno a essere generate senza libero arbitrio). Motivo per cui qualsiasi narrativa che costruiamo su noi stessi in rapporto al mondo, che derivi da un percorso di psicoanalisi, o da una psicoterapia cognitivo-comportamentale, o dalla lettura di un libro divulgativo di scienza come questo, rappresenta un tentativo di dare nuovo significato a esperienze passate allo scopo di modificare i futuri comportamenti automatici a livello individuale e/o collettivo. Ma, nella pratica, COME facciamo a cambiare il passato del nostro futuro? Risposta: partendo da una domanda… o da uno scherzo. Il primo romanzo del grande scrittore ceco Milan Kundera, Lo scherzo, pubblicato nel 1967, è un esempio perfetto – e perfettamente stratificato – proprio di questo. Il protagonista è uno studente di nome Ludvík, il quale decide di fare uno scherzo che si rivelerà decisamente sconveniente per la Cecoslovacchia comunista degli anni cinquanta, un contesto in cui «gli scherzi si accordavano poco […] con lo spirito dell’epoca». Invia una cartolina a una studentessa dalla quale è attratto senza sentirsi ricambiato, scrivendoci su queste frasi: «L’ottimismo è l’oppio dei popoli! Lo spirito sano puzza di imbecillità! Viva Trockij! Ludvík». Lei mostra alle autorità il messaggio sovversivo con conseguenze terribili per il futuro del ragazzo, che cade rapidamente di disgrazia in disgrazia, fino a sentirsi spinto, anni dopo, a compiere un gesto crudele. Tuttavia, alla fine del romanzo, un Ludvík più maturo riflette sul proprio passato, giungendo a una conclusione deterministica – e forse comoda per lui. Sostiene che gli effetti del suo scherzo, come di altre azioni in apparenza innocue, sono il risultato di forze storiche agenti al di fuori del controllo umano (un chiaro argomento contro il libero arbitrio): «E fui assalito dalla sensazione […] che spesso il destino si compie molto prima della morte». Ironicamente, non solo Lo scherzo racconta gli sconvolgimenti avvenuti nella vita del protagonista Ludvík, ma la vicenda della sua pubblicazione ha generato sconvolgimenti reali nella vita dello stesso Kundera e del suo paese. Poco dopo l’uscita del libro, infatti, la stagione delle riforme avviata con la Primavera di Praga nel 1968 sembrava assimilarne lo spirito, quell’attitudine irriverente e ribelle verso un governo repressivo, che peraltro aveva immediatamente messo al bando il romanzo. Era come se il libro di Kundera, insieme al suo autore, stesse subendo lo stesso destino dello scherzo di Ludvík, cioè «si moltiplicava mostruosamente in altri e altri stupidi scherzi». Nel giro di poco, Kundera perse il suo lavoro di insegnante e si rifugiò come esule in Francia, alterando così il corso della propria esistenza. Il regime comunista considerò il romanzo e lo scherzo del titolo come una minaccia, e il suo autore come un pericoloso deviante. Questo perché i governi – specialmente quelli totalitari – e i loro esperti di propaganda comprendono il potere insito nel dare nuovo significato alla storia. Coloro che influenzano il significato del passato plasmano le fondamenta sulla base delle quali chi si identifica in quel passato si comporterà in futuro. Per questo motivo, interrogarsi sul passato con qualcosa di così oggettivamente innocuo come carta e inchiostro, come fece Kundera e tanti che l’hanno preceduto e seguito, è diventato un atto di ribellione gravido di significato, che in ultimo ha plasmato il futuro dello scrittore stesso. Anni dopo, in un’intervista, Kundera, scherzando, disse che tutti i suoi romanzi avrebbero potuto intitolarsi Lo scherzo. Tutto questo è successo perché Kundera non ha semplicemente pubblicato un’opera di finzione ma ha anche fatto la cosa più pericolosa che una persona possa fare, e che tante persone hanno fatto nel corso della storia. Ha posto una domanda: perché? Il domandare perché è una dimostrazione di consapevolezza, di dubbio proattivo. E Lo scherzo è una dimostrazione del potere insito nel domandare perché. In particolare, la natura sovvertitrice del perché? si riscontra nei cambiamenti che ha prodotto nella storia, e nella sua soppressione da parte di governi, istituzioni, religioni e – per triste ironia – dei sistemi educativi. Gli innovatori avviano il processo di creazione di nuove percezioni – di cambiamento del passato del loro futuro – domandando il perché non di qualsiasi cosa, bensì di ciò che assumiamo essere vero… i nostri assunti. Probabilmente, mettere in dubbio i nostri assunti più radicati, soprattutto quelli che ci definiscono (o definiscono le nostre relazioni o le nostre società), è la cosa più «pericolosa» che si possa fare, dato che ha il massimo potenziale di trasformazione e distruzione in «uguale» misura. Può avere un tale impatto sismico perché riplasma il passato, offrendoci nuovi modi di pensare a nozioni e circostanze in precedenza date per scontate come una realtà assodata. Se non ci domandiamo perché abbiamo un’unica risposta, non c’è possibilità di crearne una diversa. Tuttavia imparare a chiedere costantemente perché non è semplice, soprattutto in un’epoca in cui l’informazione è considerata qualcosa di così essenziale. «Big Data» è la parola d’ordine del XXI secolo, raccolte di dati sempre più grandi e veloci, potenti come un sistema monetario. Ha preso piede una vera e propria ossessione per questa forma di accumulo in molti settori delle nostre società, dalla medicina al commercio, fino alle singole persone che con lo smartphone misurano i «passi» percorsi quotidianamente. C’è persino una band musicale che si chiama Big Data. Il termine si riferisce a dataset così vasti da richiedere nuove tecnologie e nuovi metodi di analisi matematica, oltre che numerosi server. Il fenomeno dei Big Data – e, più precisamente, la capacità di raccoglierli e gestirli – ha trasformato il modo in cui le grandi aziende conducono gli affari e i governi trattano i problemi, dato che l’idea sbandierata dai media è che queste immense miniere di informazioni consentiranno di ottenere conoscenze profonde in precedenza fuori dalla nostra portata. Raccogliendo metadati sul nostro comportamento, cosa che al momento si limita perlopiù alle nostre abitudini di visite/acquisti/viaggi online, le compagnie, per vendere i loro prodotti o servizi, saranno in grado di rivolgersi a ciascuno di noi direttamente: alle nostre «preferenze» (leggasi: assunti). Netflix potrebbe consigliarmi film e serie tv che incontrano i miei gusti; Amazon potrebbe mandarmi le pubblicità mirate dei prodotti che mi piace acquistare in primavera, aumentando così la probabilità di fare una vendita; le app del traffico potrebbero guidarmi meglio attraverso gli ingorghi secondo il mio compromesso preferito fra tempo ed estetica dei luoghi; e i ricercatori medici potrebbero individuare meglio i rischi per la mia salute. L’ironia sta nel fatto che i Big Data, di per sé, non portano proprio a niente di illuminante, dato che a essere raccolte sono soltanto informazioni su chi/cosa/dove/quando: su quante persone cercano o cliccano su qualcosa, e quando e da dove lo fanno, oltre che svariati altri dettagli quantificabili. Tutto quello che queste banche dati del chi/cosa/dove/quando possono darci è precisamente ciò a cui il termine «Big Data» allude non troppo velatamente: fiumane di dati, e nulla più. Senza il cervello (e, in futuro, cervelli potenziati con le intelligenze artificiali) con cui poter applicare utilmente i dati in più contesti – cioè trovare delle metafore efficaci che trascendano una singola situazione – l’informazione non ci serve a niente. Senza sapere perché, non possiamo trovare delle leggi (dei principi di base) che possano essere generalizzate, come la legge di gravità, che non si applica a nessun oggetto in particolare ma a tutti gli oggetti dotati di massa. Degli effetti senza una comprensione delle cause che vi stanno dietro sono solo mucchi di dati fluttuanti nell’etere, che di per sé non offrono nulla di utile. I Big Data sono mere informazioni, equivalenti agli schemi di luce che colpiscono gli occhi. Sono come il repertorio storico degli stimoli a cui i nostri occhi hanno risposto. Come abbiamo detto in precedenza, gli stimoli di per sé sono insignificanti perché potrebbero significare qualunque cosa. Lo stesso vale per i Big Data, a meno che su tutti questi database non intervenga qualcosa potenzialmente in grado di trasformarli… la comprensione. La comprensione riduce la complessità dei dati limitando la dimensionalità dell’informazione a una serie inferiore di variabili conosciute. Immaginate di far parte di una startup che abbia sviluppato un nuovo tipo di apparecchio per il riscaldamento, e lo volete commercializzare in maniera mirata. Per la vostra ricerca, effettuate una serie di misurazioni della temperatura corporea di alcuni animali, e in particolare del loro tasso di perdita del calore. Scoprite che perdono calore a tassi tutti differenti fra loro. Più animali testate – compresi gli umani – più dati raccogliete. Data la vostra dedizione nel misurare, accumulate un dataset sterminato, con un numero sempre crescente di dimensioni, in cui ciascun animale ne ha una propria, malgrado l’apparente linearità di quella semplice stima. Tuttavia le misurazioni in sé e per sé non vi dicono niente sul come e sul perché ci sia variabilità nella perdita di calore fra i diversi animali. Quel che dovete fare è organizzare i vostri dati. Ma in teoria c’è una quantità enorme di modi per farlo. Dovreste organizzarli per tipo, colore, qualità della superficie, o una combinazione di due, tre o n variabili? Qual è il metodo migliore (o «giusto») da seguire? La risposta «giusta» è quella che offre la comprensione più approfondita, e si dà il caso che in questo esempio sia organizzare per grandezza. Sappiamo – perché qualcuno ha fatto esattamente questo esperimento – che esiste un rapporto inverso tra dimensione e area di superficie: più l’animale è piccolo, maggiore è, in proporzione, la sua area di superficie, e quindi maggiore è il calore che perde e maggiore la necessità di compensare quella perdita di calore in altri modi, andando così a creare le condizioni per il processo dell’evoluzione di tentativi ed errori finalizzato a trovare la soluzione. Ed ecco che ce l’avete: un principio generalizzabile. Quello che era uno smisurato dataset multidimensionale si è ora drasticamente ridotto a una singola dimensione, un principio semplice che deriva dall’utilizzo dei dati, ma non dai dati di per sé. La comprensione trascende il contesto, dato che i differenti contesti si fondono in base a una loro similarità in precedenza sconosciuta, che invece il principio contiene. Questo è ciò che fa la comprensione. E lo possiamo anche sentire nel nostro cervello quando avviene: il nostro «carico cognitivo» diminuisce, come pure i livelli di stress e ansietà, e il nostro stato emotivo migliora. Per tornare al nostro bistrattato Ludvík, la sua filosofia di vita è applicabile alla percezione umana? Il nostro «destino» percettivo è già «compiuto», fuori dal nostro controllo, perché è stato plasmato da forze storiche, evoluzionarie, che precludono il libero arbitrio? Assolutamente no. Il domandare «perché?» ha provocato non solo la Primavera di Praga ma anche la Rivoluzione francese, la Rivoluzione americana, la caduta del Muro di Berlino. I rivoluzionari e i cittadini comuni che hanno portato avanti queste ondate di mutamento sociale hanno tutti in comune la stessa domanda: perché le cose vanno così e non in un altro modo? Se si induce un numero sufficiente di persone a domandarsi questo, cose straordinarie – e straordinariamente imprevedibili – diventano di colpo possibili (senza essere in grado di definire a priori quali possano essere quelle cose). E la ragione è semplice: chi, cosa, dove, e quando portano a risposte che sono illuminate dal lampione metaforico che fa luce soltanto sullo spazio che possiamo vedere (cioè misurare). Naturalmente, la misurazione è essenziale, come più in generale lo sono le descrizioni. Ma i dati non sono comprensione. Ad esempio, le scuole tradizionali continuano a insegnare ciò che è misurabile (cioè il genere di risposte che si ottengono con l’apprendimento mnemonico), ma questi metodi non insegnano agli studenti, valutati con criteri misurabili, a essere in grado di comprendere. È come insegnare sotto il lampione, quando invece sappiamo che le chiavi ci sono cadute altrove, in un punto nel buio. Anziché cercare nell’oscurità, noi ce ne restiamo sotto la luce e raccogliamo montagne di dati misurabili. Nonostante le incredibili tecnologie ingegneristiche richieste per certi tipi di misurazioni, mettere insieme dei dati è facile. Difficile è comprendere i perché. E, per ribadire ancora una volta il punto, il valore non sta nel conoscere, sta nel comprendere. Perciò, quando pensiamo ad esempio ai TED Talks (le popolari conferenze video online in cui esperti delle varie discipline spiegano dal palco le loro idee al pubblico), anziché «ideas worth spreading», le idee che meritano di essere diffuse, che è il loro motto, dovremmo piuttosto considerare «le domande che meritano di essere poste». Le buone domande (la maggior parte non lo sono) rivelano e creano collegamenti in maniera analoga a come fa il cervello allo scopo di costruire una realtà, un passato che usiamo per percepire nel futuro, a partire da quella oggettiva cui non abbiamo accesso. Per questo George Orwell aveva ragione quando disse che «una cosa è divertente quando turba l’ordine stabilito; ogni battuta è una piccola rivoluzione». Vale la pena notare che l’uso del domandare perché segue una lunga tradizione, una tradizione di pensiero filosofico che risale a tempi lontani, da Socrate a Wittgenstein. Quel che fanno i filosofi è prendere degli assunti esistenti (o preconcetti, o quadri di riferimento) e metterli in discussione. Questo li porta a elaborarli o a ritoccarli o a tentare di distruggerli, per poi rimpiazzarli con una serie di nuovi assunti che un altro filosofo affronterà nello stesso modo. Questa metodologia apparentemente esoterica del continuo interrogarsi è tutto meno che esoterica. Non solo è una competenza apprendibile, ma è di straordinaria importanza pratica in un mondo ossessionato dal trovare risposte definitive, che guariscano tutti i mali. È per questo che dobbiamo portare il metodo della filosofia nella nostra vita quotidiana. Tutto ciò che sia creativo nasce da questo tipo di interrogazione filosofica, che è il motivo per cui la filosofia potrebbe essere la più pratica fra le nostre discipline umanistiche in via di estinzione. Raramente le scuole insegnano agli studenti come porre le domande, meno che mai quale sia una buona domanda, o la maniera di trovarla. Il risultato è che siamo – metaforicamente e in un certo senso anche letteralmente – «grandi ingegneri ma pessimi filosofi».