di Marcello Frigeri

Marcello Frigeri, laureato nella facoltà di Lettere e Filosofia, in scienze della comunicazione è portavoce del sindaco di Parma e spin doctor.

Giornalista pubblicista dal 2009, lavora nell’ambito della consulenza politica e della strategia della comunicazione.

 

 

 

“Perché l’essere piuttosto che il nulla?”. Il viaggio che ci condurrà nella terra dello scontro tra Thomas Ligotti e Julio Cortàzar è racchiuso nel senso di questa domanda, tra le più ricercate e profonde nella storia della filosofia. Thomas Ligotti, dal quale il nostro viaggio avrà inizio, nel suo “La cospirazione contro la razza umana” la ripropone nei seguenti termini: perché deve esistere l’essere piuttosto che il nulla? Il “deve esistere” è una forma di costrizione: non è volontà di essere qualcosa, ma obbligo di esserlo. Qualcuno ci obbliga all’esistenza?

 

Thomas Ligotti è un autore ai più sconosciuto,  un individuo che non ama comparire: sono poche le interviste rilasciate, quasi inesistenti le foto che lo ritraggono, tra queste penso che non ne troverete una in cui egli sorrida. Thomas Ligotti è lo scrittore più perturbante e cupo che abbia letto, molti lo ritengono l’erede di Howard Philip Lovecraft, il solitario di Providence, maestro dell’orrore cosmico. La magistrale penna di Ligotti ha sfornato prodotti di una qualità eccelsa come Teatro Grottesco, I canti di un sognatore morto o Lo scriba macabro, culminanti in un vero e proprio precipizio del mondo: La cospirazione contro la razza umana, inizio e fine della macabra filosofia ligottiana. Poi una chicca: chi ha apprezzato la prima stagione della serie tv True Detective sappia che i flussi di coscienza del detective Rust Cohle sono trasposizioni del suo abissale non-pensiero nichilista. Nella sua essenza più nera, Thomas Ligotti ritiene l’esistenza l’orrore del mondo: essere vivi è la condanna dell’uomo.

 

Il regno oscuro di Ligotti: la battaglia contro la vita
La cospirazione contro la razza umana
è un libricino di poco meno di 200 pagine, carico di una vorticosa potenza tanto da risultare opprimente: per affrontare le regioni tetre all’interno delle quali Ligotti ci attira si ha bisogno, d’intanto, di ritornare in superficie e respirare aria che assapori di vita. Nel saggio, Ligotti afferma che la vita è un coacervo di sofferenza nel quale l’uomo sguazza e poi affoga: la vita non ha un senso né divino né esistenziale, è un errore del metabolismo della Natura, e l’uomo incantato dalla sua bellezza è un cospiratore, un ingannatore, un nemico della verità. Per Ligotti l’unica verità è che tutti, prima o poi, siamo condannati alla morte. In questo ineluttabile vorticare della vita verso il gorgo abissale della morte siamo attraversati dal fiume impetuoso della sofferenza. La felicità, come la serenità, è soltanto un’effimera scintilla di passione, perché per Ligotti la sofferenza domina l’esistenza umana; se anche risultasse un momento minimo della vita, resterebbe una violenza inaudita imposta dalla Natura. Anzi, risulterebbe La violenza nella sua verità assoluta.

Se la vita è attraversata dalla sofferenza, e se la sofferenza è La violenza imposta, abbiamo il diritto e il dovere di cessare all’istante il suo supplizio. Con questa sentenza Ligotti supera la frontiera delle nere terre e giunge nella regione dell’inconcepibile: la razza umana ha il dovere di velocizzare la sua estinzione nullificando così il valore della sofferenza, fino alla neutralizzazione dell’Universo stesso.

 

L’indifferenza della Natura e il disprezzo verso “L’io penso”
Insomma, per Ligotti il nulla è preferibile all’essere. Da qui la domanda iniziale, che condanna Ligotti a un errare in cerca della risposta: perché siamo qualcosa? Perché sull’uomo è calata la condanna della vita? Ligotti è un nichilista che non si interroga sul valore dell’esistenza, su di essa ha già pronunciato una scandalosa sentenza. Egli, semmai, si interroga sul (non) valore del nulla: l’essere niente, anzi, il non essere niente ci pone al di là della sofferenza e risolve così il dolore della condanna. Il non essere niente, in realtà, ci pone al di là di ogni cosa. Di più: risolve lo stesso porsi. Non essendo niente, non possiamo sentire niente; l’esistenza stessa non sarebbe nulla, così anche il nulla, semplicemente, non sarebbe. Ecco risolto il problema della sofferenza: la morte terminale dell’umanità, e più in grande dell’esistenza.

Se proprio non può (non) esistere il nulla, sembra pensare Ligotti, allora è meglio che l’essere non sia cosciente di sé ma caos. Il caos non sa di essere tale, è il nulla dell’esistenza. Il caos non soffre.

Qui, la Natura è messa all’indice come causa della vita. Nei pensieri di Ligotti appare come Azathoth, il caos Primigenio, il Dio creato da Lovecraft comparso per la prima volta negli scritti del Ciclo di Chtulhu e descritto come “Il Dio cieco che gorgoglia e bestemmia al centro dell’Universo”. La Natura sarebbe il Dio capovolto di Spinoza: non ordine, ma caos; non sostanza di tutte le cose di cui l’uomo rappresenta un attributo, ma la furia di atomi impazziti. Da questo caos nullificato, però, è improvvisamente gorgogliata la vita con il suo grande mistero, che per Ligotti è la condanna dell’umanità. L’essere qualcosa (sentirsi vivo, esistere), in sostanza, è l’errore originario nato dal caos.

Ligotti disprezza la vita perché in verità disprezza l’autocoscienza, l’io penso kantiano e cartesiano, l’interrogarsi dell’uomo su se stesso e sulle cose del mondo. Il domandarsi perpetuo (dove siamo? Cosa siamo? Perché siamo?) apre le porte alle emozioni, quindi alla sofferenza per come Ligotti la intende: non già il soffrire per qualcosa in particolare, ma la sofferenza che si cela dietro ogni soffrire particolare. Se l’uomo fosse privo di autocoscienza, Ligotti sarebbe soddisfatto di “vivere” come un attributo del caos. Sarebbe soddisfatto, cioè, di non essere nient’altro che caos. Il che, però, appare come una contraddizione: essendo caos non sentirà soddisfazione per nulla e verso nulla, semplicemente non sarà.

 

  Cortàzar, il cavaliere bianco: la ricerca di un ordine delle cose
È difficile accettare il modo di ragionare di Ligotti, perché ci pone nella condizione di considerarci un errore, l’errore primigenio della Natura, il caos primordiale. Per rispondere al nichilismo di Ligotti dobbiamo fare ritorno a casa, allontanandoci dalle regioni violente di Azathoth dove il disordine regna e gorgoglia, e dove l’oscurità opprime. Vi è un libro che può portare luce là dove l’esistenza è morente nella penombra, ma non si pensi che quella luce risolva il “problema” della sofferenza nel suo contrario: Julio Cortàzar, autore di Rayuela – o il gioco del mondo – affonda nella carne viva di ogni emozione umana, anche della sofferenza. Ma, appunto, la sofferenza è vita, ed essere vivi è l’unica risposta al nichilismo ligottiano.

Una risposta che tuttavia non soddisferebbe la critica di Ligotti verso la vita, anzi, la enfatizzerebbe: la sofferenza è una proprietà della vita? Allora meglio il nulla del caos alla vita con le sue emozioni.

Ma Cortàzar, dal canto suo, penetra con lo sguardo gli occhi profondi di Ligotti e lo sfida sul suo stesso terreno: non si può dire che sia meglio il nulla all’essere, perché la proprietà “migliore” è un attributo di ciò che è vivo e non di ciò che è nulla. Il “meglio” vive solo nelle regioni della vita, non in quelle della morte. Noi siamo esseri coraggiosi che guardano negli occhi il caos cercando nel suo vorticare incessante un ordine. Noi siamo esseri che sognano di mettere ordine nel disordine. La risposta è radicale.

 

Rayuela – il gioco del mondo
Rayuela
è un libro che tutti dovrebbero prendere in mano, lo potremmo leggere lungo il corso di tutta la vita e non comprenderlo mai; forse è giusto così: Rayuela non può essere compreso, ha infiniti significati racchiusi in infinite sfaccettature, ogni pagina offre la possibilità di affacciarsi sul panorama di innumerevoli storie, e ogni storia ha sempre nuove storie da raccontare, come un mandala che nel suo perpetuo crearsi traccia le linee infinite dell’Universo. Nessuna fine, nessun inizio: un eterno viaggio lontano da se e in sé. Leggere Cortàzar è come circumnavigare il disordine alla ricerca del suo ordine. Questo viaggio incomprensibile non è forse un affacciarsi alla vita? Nel disordine dell’esistenza ognuno a suo modo è in viaggio alla ricerca della struttura del mondo (l’ordine), del significato originario che, però, non può essere trovato. Ma la vita è forse questo viaggio e non la meta.

Mentre il vortice gorgogliante trasporta Ligotti verso Azathoth, come una volontà di potenza fine a se stessa, Julio Cortàzar si fonde col disordine della vita provando a mettervi ordine. Il tentativo di Cortàzar è il vivere stesso, dentro a esso c’è il mondo intero e il suo gioco: soffrire, sperare, amare, giocare, scherzare, fare sesso, ridere; esistere. Attraverso uno dei tanti flussi di coscienza di Horacio – il protagonista -, in Rayuela Cortàzar scrive: “… E così il dovere, la morale, l’immoralità e l’amoralità, la giustizia, la carità, l’europeo e l’americano, il giorno e la notte, le mogli, le fidanzate e le amiche, l’esercito e la banca, la bandiera e l’oro statunitense o moscovita, l’arte astratta o la battaglia di Caseros divenivano come denti o capelli, qualcosa d’accettabile e fatalmente incorporato, qualcosa che non si vive né si analizza perché è così e ci integra completamente e irrobustisce […]. Fino a una riconciliazione totale con se stesso e con la realtà in cui abitava […] qualcosa che fosse finalmente come un significato di ciò che adesso non era altro che lo stare là a prendere il mate e a guardare le dita della Maga che andavano e venivano con le pezze…”.

In questo tratto del romanzo Cortàzar si chiede quale sia l’ordine profondo di tutte le cose che vorticosamente accadono. Dove stia il perché del Tutto. Questo cercare, in fondo, è dare un senso alla vita: che ce l’abbia o non ce l’abbia, l’uomo ne è continuamente alla ricerca, e la ricerca del senso della vita testimonia il valore della vita stessa.

 

L’equilibrio tra nulla ed essere
Al termine di questo viaggio tra i due autori ci ritroveremo al punto di partenza senza esserci mossi di un solo passo: perché l’essere piuttosto che il nulla? Nel nulla Ligotti ritrova la fine di ogni sentire, cullato da una pace dei sensi che non è vera pace, ma il nulla; nell’essere Cortàzar ritrova la storia di tutte le storie, il gioco del mondo: l’esistenza nel suo fluire disordinato e nel suo eterno porsi.

L’Universo è un qualcosa in equilibrio tra la gravitazione e la repulsione: se esistesse unicamente la forza di gravità saremmo tutti parte di una singolarità dalla massa infinita, un punto minuscolo in cui è racchiusa tutta la materia dell’Universo; ma esiste anche la repulsione, perciò l’Universo si espande e le galassie si allontanano. Gravità e repulsione, insieme, pongono le basi della vita: se ci fosse solo gravità saremmo una singolarità, se ci fosse solo repulsione, i nostri atomi e quelli del mondo schizzerebbero lontani l’uno dall’altro. Allora la vita, forse, è l’equilibrio tra ordine e caos, tra essere e nulla (qui inteso come disordine privo di autocoscienza: Azathoth). Il mondo di Ligotti esiste perché esiste il mondo di Cortàzar, e viceversa. Entrambi si completano in una danza incomprensibile in cui caos e ordine, alla fine, sono la medesima cosa osservata da punti di vista differenti.

Perché l’essere piuttosto che il nulla? Non ci è dato sapere. Ma questo inconcluso domandare, lì nelle regioni recondite dell’autocoscienza, è il porsi dell’esistenza mia e tua che leggi, di Ligotti e di Cortàzar, i quali ancora una volta, così in eterno, si domandano perché l’essere piuttosto che il nulla, perché l’ordine e non il caos. Una rosa è una rosa è una rosa…